Antonio De Lisa- La nakba e la questione palestinese dopo la nascita dello Stato di Israele

Antonio De Lisa- La nakba e la questione palestinese dopo la nascita dello Stato di Israele
La guerra arabo-israeliana del 1948
Per il mondo arabo la guerra del 1948  è per definizione al-nakba: النكبة,  ossia «la catastrofe».
I primi scontri armati erano iniziati subito dopo l’approvazione, il 29 novembre 1947, della risoluzione 181 proposta dall’ONU,  con cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite raccomandava l’adozione del piano di partizione elaborato dall’UNSCOP (un comitato da essa appositamente creato per determinare l’assetto dei territori ad ovest del Giordano una volta cessato il mandato britannico della Palestina). Fino al ritiro britannico, avvenuto il 14 maggio 1948, si trattò essenzialmente di una guerra civile tra ebrei ed arabi di Palestina ed il conflitto rimase essenzialmente al livello di guerriglia, anche in conseguenza della significativa presenza delle forze inglesi.

All’indomani della proclamazione della nascita di Israele (15 maggio 1948) gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano invasero il territorio del nuovo Stato ebraico.

In seguito alla tregua del luglio 1948, Israele estese i propri confini incorporando la Galilea orientale, il Negev e una striscia di territorio fino a Gerusalemme, di cui occupò la metà occidentale. Seguì, nel 1949, una serie di armistizi separati fra lo Stato ebraico e l’Egitto, che occupò la Striscia di Gaza; la Transgiordania (che da allora prese il nome di Giordania) che occupò la Cisgiordania; il Libano e la Siria. I tentativi dell’ONU di giungere a un trattato di pace fallirono e permasero i motivi di tensione tra i diversi Paesi, ai quali si aggiunse il problema dei profughi palestinesi dislocati dall’occupazione israeliana.

Gli scontri terminarono nei primi mesi del 1949, ed al cessate il fuoco seguirono accordi armistiziali separati.

La seconda guerra arabo-israeliana – 1956

Negli anni Cinquanta assume le caratteristiche di un nuovo protagonismo politico il “nazionalismo” arabo propugnato da Nasser. Nel 1956 il presidente egiziano  bloccò gli stretti di Tiran e il golfo di ‛Aqaba, impedendo l’accesso al mare di Israele. L’esercito israeliano compì una fulminea avanzata nel Sinai sino al canale di Suez (29 ott.-5 nov.). Anche Francia e Gran Bretagna, i cui interessi erano stati colpiti dalla nazionalizzazione del canale attuata in quell’anno da Nasser, entrarono nel conflitto (30 ott.). Tale intervento fu condannato dall’URSS, dagli USA e dall’ONU che, quando cessarono le ostilità (9 nov.), inviò in Egitto una forza d’interposizione (i caschi blu, creati in quell’occasione) nel Sinai, forzando al ritiro le forze anglo-francesi e Israele. Lo status quo territoriale non conobbe modifiche ma fu ripristinata la libertà di navigazione israeliana.

Tale avvenimento non è strettamente collegato alla questione palestinese, ma ugualmente coinvolge Israele, che stava consolidando le conquiste successive alla guerra del ’48.

La nascita dei partiti politici palestinesi

Il sistema politico palestinese attuale si crea lungo due linee di frattura ben precise. La prima, che si delinea negli anni Cinquanta a partire dai postumi della naqba, è quella tra l’orientamento panarabo e l’orientamento che potremmo definire con la formula ‘la liberazione della Palestina è affare dei palestinesi’. La seconda linea di frattura, che viene alla ribalta soprattutto negli anni Ottanta con la politicizzazione dell’islam palestinese, è quella tra i partiti e i movimenti di origine nazionalista, da un lato, e i movimenti islamisti dall’altro. Un fatto a sé, invece, è la complicata storia dei vari partiti comunisti giordani e palestinesi.

Al-Fatah

Fondato nel 1959 da Yāser ʿArafāt (della nota famiglia palestinese degli al-Ḥusaynī), che assunse il nome di battaglia di Abū ʿAmmār, al-Fatḥ, rappresentando per decenni – come vero e proprio partito combattente – la spina dorsale della lotta armata palestinese allo Stato d’Israele, Al-Fatah o, più comunemente, Fatah (ma, correttamente, al-Fatḥ (in arabo: ألفتح), dal momento che al-Fatà, scritto in in arabo:  الفتى   significa “il/la giovane”), è l’organizzazione che ha incarnato nel bene e nel male le speranze di riscatto del popolo palestinese. Gli storici stanno operando una profonda revisione della figura storica di ʿArafāt, ora che è lontano dai clamori della cronaca e dei mass media, concentrandosi sul suo ruolo storico piuttosto che sui tratti pittoreschi della sua figura.

Il nome del movimento di ʿArafāt deriva da FTḤ, acronimo inverso dell’espressione araba Ḥarakat al-Taḥrīr al-Filasṭīnī (Movimento di Liberazione Palestinese, quindi parole molto simili a quelle che compongono l’acronimo OLP).

L’acronimo “ḤATF” avrebbe avuto lo stesso suono di un sostantivo che significa “morte”, e perciò ʿArafāt preferì invertire l’acronimo che, come “F[A]TḤ, può anche significare “conquista” o “vittoria in battaglia”.

Sull’emblema compare anche la parola araba al-ʿāṣifa (tempesta): nome della prima struttura armata di Fatḥ mentre sotto il simbolo è scritto in lingua araba al-thawra ḥattā al-nāṣir (rivoluzione fino alla vittoria).

Al-Fatḥ, pur non avendo mai raccolto l’unanimità dei consensi palestinesi, è stata fino al 2006 la maggior organizzazione palestinese, fin quando, a partire dalla fine degli anni novanta, la sua popolarità è stata insidiata in termini numerici e di consenso da Ḥamās, di cui parleremo più avanti.

Organizzazione per la liberazione della Palestina – Olp

L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp, in arabo Munazzamat li-Tahrir Filastin) fu creata nel 1964 per iniziativa degli stati arabi con lo scopo reale di controllare le organizzazioni palestinesi. Ciò nonostante, dopo la disfatta del 1967 furono proprio le organizzazioni palestinesi, e soprattutto Fatah e il suo dirigente Yasser ‘Arafāt, a prendere controllo dell’Olp nel 1968.

Il Partito comunista palestinese nacque nel 1982 ad opera del Partito comunista giordano mentre nella Striscia di Gaza venne invece creata un’organizzazione comunista palestinese autonoma. Nel 1991 il Partito comunista divenne infine il Partito del popolo palestinese (Ppp, Hizb al-Sha’b al-Filastini), semplicemente con un cambiamento di nome.

Movimenti islamici

Mentre la branca palestinese delle Fratellanza musulmana, creata nel 1935, rimase a lungo attiva soltanto nel campo sociale e religioso, il primo partito palestinese a ispirazione islamica fu Hizb ut-Tahrir, fondato a Gerusalemme nel 1952 da Taqi al-Din al-Nabhani. Questo partito ha però avuto sempre una caratterizzazione panislamica e non è da considerare un attore importante nel quadro palestinese.

Il primo gruppo islamico palestinese rilevante è stato il Movimento per il jihad islamico in Palestina (Harakat al-Jihad al-Islami fi Filastin), fondato nel 1980 da Fathi al-Shiqaqi.

La terza guerra arabo-israeliana, detta «dei Sei giorni» – 1967

Una sconfitta del mondo arabo paragonabile per molti versi a quella del ’48 ma più generale e rovinosa si registrò nel maggio 1967 quando Nasser chiese il ritiro dei caschi blu disposti lungo la frontiera del Sinai e bloccò il traffico navale nel golfo di ‛Aqaba. Il 5 giugno Israele dette inizio alle ostilità con una serie di raid aerei che distrussero l’aviazione di Egitto, Siria, Giordania e Iraq. Nei giorni che seguirono, fino al 10, le forze israeliane occuparono Gaza e il Sinai a danno dell’Egitto, la Cisgiordania e la parte araba di Gerusalemme a danno della Giordania, gli altipiani del Golan a danno della Siria.

Il Movimento dei nazionalisti arabi

Dal Movimento dei nazionalisti arabi si formò nel 1967 il Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp, al-Jabha al-Sha’biyya li-Tahrir Filastin), da cui poi nacque nel 1969 il Fronte democratico (Fdlp, Al-Jabha al-Sha’biyya al-Dimuqratiya li-Tahrir Filastin).

Ambedue si caratterizzano per una posizione di tipo marxista, ma il secondo era, almeno inizialmente, più legato all’Unione Sovietica.

Settembre nero in Giordania – 1970

A seguito dello shock dovuto alla schiacciante vittoria israeliana nella Guerra dei sei giorni, diversi gruppi arabi erano alla ricerca di modi per “ripristinare l’onore” o portare avanti la propria causa. I rifugiati palestinesi costituivano una sostanziale minoranza della popolazione giordana ed erano appoggiati da molti regimi arabi, soprattutto dal presidente egiziano Nasser. Israele venne colpito ripetutamente da incursioni attraverso il confine compiute dai guerriglieri fedayn.

L’OLP aveva deciso di forzare la mano soprattutto dopo la  battaglia di Karāmeh. Qui emergono gravi responsabilità di Yasser ‘Arafāt che portò la tensione politica e militare con la Giordania fino a un punto di non ritorno. Nel settembre del 1970 (Settembre nero)  il Re hashemita Husayn di Giordania si mosse per reprimere un tentativo delle organizzazioni palestinesi di rovesciare la sua monarchia. L’attacco provocò pesanti perdite fra i civili palestinesi. Il conflitto armato durò fino al luglio del 1971.

La quarta guerra arabo-israeliana, detta «del Kippur» – 1973

Il 6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica del Kippur, l’offensiva a sorpresa delle truppe egiziane e siriane aprì la quarta guerra tra Israele e mondo arabo. Il successo iniziale delle forze arabe fu seguito da una controffensiva dell’esercito israeliano, che giunse a poche decine di km dal Cairo. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU ottenne la cessazione dei combattimenti, sancita nel 1974-75 dagli accordi fra Israele, Egitto e Siria, che consentirono, fra l’altro, la riapertura del canale di Suez (giugno 1975), rimasto chiuso dopo la guerra del 1967.

L’attacco israeliano in Libano – Operazione “Pace in Galilea” – 1982

Le contraddizioni del processo di pace che pure era stato avviato si evidenziarono in occasione dell’attacco israeliano in Libano (operazione ”Pace in Galilea”) del 6 giugno 1982, che determinò il congelamento delle relazioni con l’Egitto da poco ripristinate.

L’attacco puntava a ottenere un ampliamento dell’area egemonica israeliana in una direzione verso cui da sempre sussistevano storiche aspirazioni. In tal senso andavano gli episodi di violenza e sconfinamento reiterati per anni lungo la frontiera libanese; così pure la creazione da parte di Israele di un corpo di miliziani mercenari per il Libano meridionale capeggiati da S. Ḥaddād e poi da A. Laḥad, sino al piano per la distruzione della rete di autogestione civile e militare costituito da tempo in territorio libanese dall’OLP e al meticoloso accordo stipulato con la fazione falangista per l’instaurazione di un governo favorevole all’alleanza con Israele.

La strage nei campi profughi palestinesi di Ṣabrā e Šātīlā

Sul piano politico, Israele riuscì a imporre il 23 agosto 1982, in Beirut assediata, l’elezione a presidente della Repubblica dell’amico Bašīr Ǧumayyil (Gemayel), capo del partito della Falange: tuttavia la sua uccisione in un attentato, la successiva strage di ritorsione nei campi profughi palestinesi di Ṣabrā e Šātīlā sotto gli occhi dei soldati israeliani, e l’elezione del più cauto fratello Amīn Ǧumayyil furono altrettanti elementi che imposero il protarsi e il complicarsi dell’occupazione israeliana rendendola al tempo stesso più costosa per gli occupanti e meno sopportabile per le masse dei territori occupati. Anche per questo Tel-Aviv accettò l’arrivo a Beirut della Forza multinazionale composta da contingenti di Stati Uniti, Francia, Italia e Gran Bretagna che permise l’evacuazione dei combattenti palestinesi e, anche se non evitò la strage nei due campi profughi, determinò un relativo sganciamento dell’esercito israeliano dal movimento di resistenza nazionale libanese in piena ascesa.

La spedizione israeliana, che avrebbe dovuto durare tre settimane, si concludeva solo a me tà del 1985.

Prima Intifāda – 1987

A partire dal 1987, nei Territori Occupati si sollevò un moto popolare (che prese il nome di Intifāda, dall’arabo: انتفاضة “intervento”, “sussulto”), che cercava di combattere la presenza israeliana in Palestina. A differenza di quanto era successo in passato, inoltre, la sommossa nasceva proprio all’interno dello stato di Israele, nei territori occupati, in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, dove le condizioni di vita per i palestinesi erano particolarmente dure.

La rivolta scoppiò a Jabaliyya e si espanse subito ad altri campi profughi palestinesi e infine a Gerusalemme. Il 22 dicembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condannò Israele per avere violato la Convenzione di Ginevra a causa del numero di morti palestinesi nelle prime poche settimane di intifada.

Il 6 luglio 1989, ci fu il primo attacco suicida dentro i confini di Israele, il massacro del bus 405 a Tel Aviv. Nessun altro attacco di questa portata avvenne fino a dopo gli Accordi di Oslo. Benny Morris descrive in questi termini la situazione nel giugno del 1990: “Da allora l’intifada sembrò aver perso la strada. Un sintomo della frustrazione dell’OLP era il grande aumento nell’uccisione di sospetti collaboratori; nel 1991 gli israeliani uccisero meno palestinesi – circa 100 – rispetto a quanti ne uccisero i palestinesi stessi – circa 150.” Tentativi di un processo di pace nel conflitto israeliano-palestinese furono fatti alla Conferenza di Madrid dell’ottobre 1991.

I riflessi della reislamizzazione del Medio Oriente: Ḥamās

Ḥamās è nato nel dicembre 1987, all’inizio della prima Intifāda, come espressione politico-militare dei Fratelli musulmani della Palestina.

Ḥamās, acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (حركة المقاومة الاسلامية, Movimento Islamico di Resistenza, ovvero حماس, “entusiasmo, zelo”) è stata fondata dallo Shaykh Ahmad Yasin, ʿAbd al-ʿAzīz al-Rantīsī e Mahmud al-Zahar nel 1987, sotto la pressione dell’inizio della Prima Intifāda, come braccio operativo dei Fratelli Musulmani, per combattere lo Stato di Israele, la cui presenza nella Palestina storica viene considerata illegittima. Ḥamās ha promosso fin dalla sua fondazione ampi programmi sociali, e ha guadagnato popolarità nella società palestinese con l’istituzione di ospedali, sistemi di istruzione, biblioteche e altri servizi in tutta la Striscia di Gaza.

Lo Statuto di Ḥamās si propone la cancellazione dello Stato di Israele e la sua sostituzione con un Stato islamico palestinese. La stessa Carta dichiara che “non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihad”. Ciononostante, nel luglio 2009, Khaled Mesh’al, capo dell’ufficio politico di stanza a Damasco, ha dichiarato che Ḥamās era intenzionato a cooperare con una “soluzione del conflitto Arabo-Israeliano che includesse uno stato Palestinese sui confini del 1967″, a condizione che ai rifugiati palestinesi venisse riconosciuto il diritto al ritorno in Israele e che Gerusalemme Est fosse riconosciuta come capitale del nuovo stato. Hamas in passato ha descritto il suo conflitto con Israele come politico e non religioso ma alcuni giornalisti e gruppi di opinione sostengono che lo Statuto di Ḥamās e le dichiarazioni dei leader di Ḥamās sono state influenzate da teorie complottiste antisemite.

Gli Accordi di Oslo del 1993

Il 13 settembre 1993, nel cortile della Casa Bianca, Ytzhak Rabin, primo ministro israeliano, e Yāser ʿArafāt, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), firmarono quelli che passarono alla storia come gli accordi di Oslo. Era la prima volta che i due paesi si riconoscevano come legittimi interlocutori ed era la prima volta che i due leader si stringevano la mano in pubblico.

Con la “Dichiarazione dei principi”, il nome del documento prodotto dagli accordi di Oslo, per la prima volta gli israeliani riconobbero nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina l’interlocutore ufficiale che parlava per il popolo palestinese e gli riconobbero il diritto di governare su alcuni dei territori occupati. L’OLP da parte sua riconobbe il diritto di Israele a esistere e rinunciò formalmente all’uso della violenza per ottenere i suoi scopi, cioè la creazione di uno stato palestinese.

Questi riconoscimenti reciproci erano già di per sé una novità assoluta nei rapporti tra Israele e i palestinesi, ma l’accordo conteneva anche un piano specifico per mettere in atto una soluzione definitiva alla “questione palestinese”. Israele prometteva di ritirarsi da Gaza e dall’area di Gerico, nella Cisgiordania. Prometteva anche che nei cinque anni successivi si sarebbe ritirata da altri territori occupati militarmente. Secondo gli accordi in questi territori si sarebbero insediati dei governi palestinesi eletti localmente, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Gli accordi prevedevano da parte dei palestinesi una serie di difficili concessioni immediate (il riconoscimento di Israele e la rinuncia alla violenza), mentre gli israeliani avrebbero dovuto fare le concessioni difficili più avanti (completare il ritiro delle truppe dal resto dei territori occupati). Quasi tutte le questioni più complicate, come lo status di Gerusalemme e il destino degli insediamenti dei coloni ebraici in Cisgiordania, non furono discusse durante i negoziati e vennero rimandate alle riunioni successive.

L’Autorità nazionale palestinese (ANP)

Per chi viaggia in Palestina è senz’altro familiare il doppio ritratto che campeggia negli istituti pubblici e nelle stazioni di polizia: quello di Arafat e quello di Abu Mazen. Il fatto che quei ritratti siano presenti è il risultato di un avvenimento di rilievo nella drammatica storia dei palestinesi, la nascita dell’Autorità nazionale palestinese.

Questa è una istituzione politica costituitasi nel 1993 in seguito agli accordi di pace di Oslo tra l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e Israele. Quest’ultimo ha conferito all’ANP il mandato di governo su parte dei territori occupati da Israele dopo la guerra del 1967 (Striscia di Ghaza e parte della Cisgiordania, in particolare le città di Gerico, Hebron, Nablus e Betlemme). La giurisdizione dell’ANP concerne il governo civile e l’attività di polizia; Israele gode del diritto di intervenire nei territori amministrati dall’ANP per ragioni di sicurezza. Nel 2005 il governo israeliano ha operato una vasta operazione di evacuazione dei coloni ebrei dalla Striscia di Gaza. L’ANP è organizzata in un Consiglio dell’autonomia composto di 88 membri eletti a suffragio universale, un primo ministro designato dal Consiglio e un presidente eletto a suffragio diretto.

Oslo II e il fallimento degli accordi

Nel 1995 Rabin e ʿArafāt firmarono un’altra serie di accordi, Oslo II, che garantivano all’OLP il governo di numerose città e villaggi a Gaza e nella Cisgiordania, dopo che nel luglio del 1994, Israele aveva cominciato a ritirare l’esercito da alcuni dei territorio occupati. All’epoca però lo scetticismo nei confronti degli accordi stava già crescendo da entrambe le parti.

ʿArafāt e l’OLP non avevano il controllo su tutti i gruppi militari che combattevano per la liberazione della Palestina. In particolare Ḥamās e la Jihad Islamica, due gruppi di matrice religiosa, e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Flp), si schierarono contro gli accordi. Nei mesi successivi alla firma ci fu un aumento degli attacchi contro Israele, con attentati e autobombe in molte città.

Alcuni israeliani criticarono ʿArafāt perché non era in grado di garantire gli accordi di pace, mentre altri accusarono addirittura l’OLP di essere complice dei gruppi che continuavano la lotta armata. In Israele subito dopo gli accordi ci fu un voto di fiducia al governo che terminò con uno scarto di una manciata di voti. In particolare il partito di destra, il Likud, era contrario agli accordi e gli scettici aumentarono con gli attacchi e le violenze che fecero seguito agli accordi.

Nello stesso momento Israele rallentò la sua politica degli insediamenti in Cisgiordania – quelle comunità di israeliani, spesso molto religiose, che si trovano nei territori occupati da cui l’esercito avrebbe dovuto gradualmente ritirarsi – ma non la fermò. La popolazione dei coloni in Cisgiordania crebbe di circa 10 mila persone l’anno.

Nel 1995 Rabin, il principale fautore degli accordi, fu ucciso da un fanatico religioso ebreo. Nel 1996 il Likud, ostile agli accordi, vinse le elezioni. Il nuovo primo ministro, Benjamin Netanyahu, aveva più volte pubblicamente definito gli accordi di Oslo un errore. Ufficialmente non li rinnegò mai ma non compì gesti per metterli in pratica. In sostanza, negli ultimi vent’anni sono falliti quasi tutti gli altri incontri che avrebbero dovuto risolvere le questioni lasciate in sospeso da Oslo.

Uno degli incontri più importanti, considerato spesso il definitivo tramonto degli accordi di Oslo, fu quello di Camp David, nel luglio del 2000, dove si incontrarono il successore di Netanyahu, il premier laburista Ehud Barak, e Yasser Arafat. Il mediatore fu nuovamente Bill Clinton. I negoziatori avrebbero dovuto risolvere le questioni più delicate lasciate in sospeso da Oslo, come per esempio definire i nuovi passaggi di territori dell’ANP e decidere lo status di Gerusalemme. I negoziati fallirono e pochi mesi dopo scoppiò la Seconda Intifada, una serie di scontri molto duri tra palestinesi e israeliani – con molte autobombe, attacchi suicidi e lanci di missili – che sarebbe terminata soltanto nel 2005.

 

Seconda IntifādaIntifāda di al-Aqṣāانتفاضة الأقصى      2000

Le ragioni storiche della seconda Intifāda sono da ricercare in una crescente atmosfera di tensione registrata tra il 1993 e il 2000, dovuto allo stallo del processo di pace, che faceva intravedere un fallimento degli accordi di Oslo. La tensione avrebbe raggiunto il culmine nel luglio del 2000 con il fallimento del vertice di Camp David.

La Seconda intifada (all’epoca denominata dal governo palestinese Intifāda di al-Aqṣāانتفاضة الأقصى) è  esplosa a Gerusalemme il 28 settembre del 2000, in seguito estesa a tutta la Palestina. Secondo la versione palestinese l’episodio iniziale fu la reazione ad una visita, ritenuta dai palestinesi provocatoria, dell’allora capo del Likud Ariel Sharon (accompagnato da una delegazione del suo partito e da centinaia di poliziotti israeliani in tenuta antisommossa) al Monte del Tempio, luogo sacro per musulmani ed ebrei situato nella Città Vecchia.

Allo scoppio della Seconda Intifāda, un fatto caratterizzante fu la partecipazione iniziale alla sommossa della popolazione araba israeliana, fatto che non si era verificato durante la Prima Intifāda (1987).

La costruzione di insediamenti in Cisgiordania riprese in modo massiccio, così come la confisca di terreni e la demolizione di case palestinesi. In particolare intorno a Gerusalemme un motivo di altissimo conflitto fu la volontà del governo di costruire il nuovo quartiere denominato Har Homa, decisione condannata dalla comunità internazionale. Inoltre, ci fu un arenarsi dei colloqui fra le parti.

L’ostacolo era rappresentato dal netto ed esplicito “no” di Netanyahu a tre fondamentali richieste palestinesi: uno stato indipendente, il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi, lo smantellamento degli insediamenti costruiti e l’abbandono dei territori occupati, con un ritorno così ai confini del 1967.

La politica di Netanyahu era invece orientata a prolungare i negoziati il più possibile approfittando della posizione di forza israeliana per portare avanti fatti compiuti. Parallelamente, in questa situazione estremamente penalizzante per l’Autorità Palestinese, vi fu tra i palestinesi una rapida crescita di consenso verso gruppi estremistici di impronta religiosa islamica (in particolare Ḥamās, ma anche il Movimento per il Jihad Islamico in Palestina).

Il fallimento dei negoziati di Camp David e degli accordi di Sharm al-Shaykh, nel 1999, in questo quadro produsse una ulteriore instabilità politica. La stessa Autorità Palestinese cominciò a temere il pericolo di una ripresa del conflitto armato, che si rifletteva nella decisione di Arafat di accumulare quantitativi di armi.

La Seconda Intifāda si è svolta con esiti alterni fino almeno al 2005.

L’operazione Defensive Shield e l’assedio di Jenin – 2002

Il nome di Jenin, una piccola città nel nord della Cisgiordania è diventato tristemente famoso nell’aprile del 2002, quando venne presa d’assedio e in gran parte rasa al suolo dai soldati israeliani nell’ambito dell’operazione Defensive Shield. La città e in particolare il suo campo profughi divennero un simbolo della capacità di resistenza dei palestinesi. Quando al termine dell’assedio agli osservatori internazionali fu concesso di accedere alla città, trovarono decine di morti tra palestinesi e soldati israeliani, e raccontarono anche di oltre duemila persone rimaste senza un tetto per l’azione dei caterpillar che erano penetrati nelle strettissime stradine del campo danneggiando irreparabilmente numerose abitazioni.

Con la seconda Intifāda vi era stata una forte ripresa del fenomeno degli attentati suicidi palestinesi nelle principali città israeliane, in particolare contro luoghi di aggregazione civili come autobus e locali notturni. Questi atti terroristici erano stati già presenti negli anni precedenti ma non avevano ottenuto un significativo consenso politico da parte dell’opinione pubblica palestinese. Gli Israeliani, da parte loro, procedettero a varie operazioni contro la popolazione civile come la demolizione di edifici e quartieri, sia nella striscia di Gaza sia in Cisgiordania, una politica di “omicidi mirati” a sfondo politico e battaglie sanguinose come appunto l’assedio di Jenin.

La Battaglia di Gaza- 2007

Le elezioni legislative del gennaio 2006 vennero vinte da Ḥamās. La distribuzione del voto però era differenziata nei vari territori: le principali basi elettorali di Ḥamās erano nella Striscia di Gaza, mentre quelle del Fatḥ erano concentrate in Cisgiordania. Questo stato di cose era foriero di aspri contrasti politici e militari, che non tardarono a manifestarsi con episodi da entrambe le parti di brutale rappresaglia.

A seguito della Battaglia di Gaza  Ḥamās prese il controllo completo dell’omonima Striscia; nel quadro di tali eventi e tra accuse di illegalità a loro volta i funzionari eletti di Ḥamās furono eliminati fisicamente o allontanati dalle loro posizioni dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, e i loro incarichi furono assunti dai esponenti del Fatḥ e da membri indipendenti. Il 18 giugno 2007, il Presidente palestinese Mahmud Abbas (Fatḥ) emise un decreto che metteva fuorilegge le milizie di Ḥamās.

Operazione “Piombo fuso” nella striscia di Gaza – 2008-09

Alla fine del 2008, il 27 dicembre, Israele scatenava una nuova guerra a Gaza: obiettivo dell’attacco era porre fine al lancio di razzi da parte di Ḥamās sul territorio israeliano che dal 2000 aveva provocato 28 vittime.  Già negli anni precedenti, tra il 2006 e il 2007, si erano intensificate le operazioni militari israeliane a Gaza con l’obiettivo dichiarato di smantellare le basi di lancio dei missili Qassam che minacciavano ripetutamente Sderot, il deserto del Negev, Ashkelon e la città costiera di Ashod.

All’inizio del 2008 l’alleanza tra Ḥamās, il partito libanese Hezbollah (Ḩizb Allāh) e l’Iran del presidente M. Aḥmadīnejād, potenziava la forza militare di Ḥamās, ma non risparmiava alla popolazione della Striscia un’ennesima prova di resistenza: il 18 gennaio Israele chiudeva ancora una volta Gaza in una morsa tagliando tutti i rifornimenti (cibo, combustile, aiuti umanitari) e il 23 gennaio alcune centinaia di migliaia di palestinesi forzavano la barriera israeliana al valico di Rafah, al confine con l’Egitto, in cerca di cibo e assistenza.

Con il cessate il fuoco del 18 gennaio 2009 e il ritiro delle truppe israeliane dopo l’operazione “Piombo fuso“, Gaza appariva un campo di rovine. L’impressione suscitata nel mondo dalla situazione a Gaza spinse il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a istituire una Commissione d’indagine i cui risultati furono resi noti nel settembre 2009: nella dichiarazione, successivamente sconfessata dal presidente, ma non dagli altri membri della Commissione, si leggeva che durante l’operazione militare Israele aveva reiteratamente violato i diritti umani della popolazione palestinese.

La Palestina come “Stato osservatore non membro dell’Onu”

“Siamo qui non per delegittimare uno stato, Israele, ma per legittimare uno stato: la Palestina. Mi impegno a rianimare i negoziati con Israele”. Queste le parole del presidente dell’Anp Abu Mazen al Palazzo di vetro a novembre del 2012, poco prima che l’Assemblea generale dell’Onu desse il via libera alla risoluzione che riconosceva la Palestina come “Stato osservatore non membro dell’Onu”.

La risoluzione è stata votata con 138 voti favorevoli, tra cui l’Italia. La decisione di votare sì da parte del governo italiano era arrivata solo in giornata, dopo un lungo periodo di riflessione. I paesi che hanno votato contro sono stati 9, mentre 41 si sono astenuti. L’annuncio dell’Onu è stato accolto con scene di giubilo, canti, spari in aria e bandiere al vento nella piazza di Ramallah.

Dopo essere stato accolto da un lungo applauso, Abu Mazen ha chiesto all’Onu di dare alla Palestina “un certificato di nascita come stato“. “La Palestina partecipa all’Assemblea Generale oggi perché crede nella pace e la sua gente ne ha un disperato bisogno – ha continuato – il popolo palestinese in questi giorni bui guarda all’Onu con grande speranza per la fine delle ingiustizie e per un futuro di giustizia e di pace. Il voto è l’ultima chance per salvare la soluzione dei due stati”.

All’intervento di Abu Mazen ha fatto seguito quello dell’ambasciatore israeliano Ron Prosor, che ha detto che “per porre fine al conflitto una volte per tutte l’Anp deve esser pronta a riconoscere Israele come stato ebraico con Gerusalemme capitale. Questa risoluzione non riconosce l’Autorità Palestinese come Stato, perché non ha le caratteristiche per essere uno Stato”, ha aggiunto l’ambasciatore. “Perché si possa arrivare a una pace duratura bisogna garantire la sicurezza”, ha aggiunto Prosor, ribadendo che la risoluzione sull’ammissione della Palestina come stato osservatore non membro dell’Onu “allontana la pace”.

Il discorso di Abu Mazen ha scatenato l’immediata reazione del premier israeliano Benyamin Netanyahu, che ha definito l’intervento del presidente dell’Anp ”ostile e velenoso” e che le parole del leader palestinese non sono quelle di chi “cerca la pace”. ”Il mondo – secondo Netanyahu – ha visto un discorso sobillatore, di tono velenoso, pieno di propaganda menzognera verso le forze armate israeliane e i cittadini israeliani”. La risoluzione dell’Assemblea generale, per il premier israeliano è comunque priva di significato e non cambierà alcunché sul terreno. I palestinesi hanno infranto gli accordi con Israele, e Israele agirà di conseguenza”.

Tra i 9 paesi che hanno votato no alla risoluzione ci sono gli Stati Uniti. Secondo l’ambasciatrice Usa all’Onu, Susan Rice, ”la risoluzione approvata oggi non sancisce la nascita di uno Stato della Palestina”. “Sfortunatamente oggi è stata approvata una risoluzione controproducente” ai fini del raggiungimento dell’obiettivo di “due Stati per due popoli”, ha aggiunto Rice motivando il no di Washington alla risoluzione. Dello stesso tenore le dichiarazioni del segretario di Stato statunitense Hillary Clinton, secondo la quale il voto “pone nuovi ostacoli sul cammino della pace”.

Governo di Consenso Nazionale  nazionale

Il 2 giugno 2014 si è insediato in Cisgiordania un nuovo Governo di Consenso Nazionale palestinese, nato dalla rinnovata riconciliazione tra Ḥamās e Al-Fatah. I ministri hanno prestato giuramento a Ramallah di fronte al presidente Mahmud Abbas ( Abu Mazen) , che durante il suo discorso ha detto : “Oggi annunciamo la fine della divisione palestinese che ha danneggiato la nostra causa nazionale”. Il presidente ha inoltre sostenuto che tale governo di unità nazionale, interesse di tutti i palestinesi, ha il sostegno della comunità nazionale ed ha intenzione di attenersi alle linee imposte dal Quartetto (Onu, Ue, Russia e Usa): riconoscimento di Israele, rifiuto della violenza e mantenimento di tutti gli accordi attualmente presenti.

Le tensioni del giugno-luglio 2014

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha condannato il nuovo governo cercando di spingere anche il resto della comunità internazionale verso la stessa posizione ed isolarlo. Per certi versi l’atteggiamento di Netanyahu da un lato e di Ḥamās dall’altro sembrano all’origine delle tensioni del giugno-luglio.

Da Gaza il capo dell’esecutivo uscente di Ḥamās, Ismail Haniyeh, nel suo discorso di congedo, ha avvertito che «rimane un esercito composto dalle Brigate Ezzedin al-Qassam (Ḥamās). La resistenza è in condizioni eccellenti: ha deterrente ed è capace di difendere il popolo».

Un discorso certo non sfuggito ad Israele, tanto che il Gabinetto di sicurezza ha sottolineato che «riterrà l’Autorità nazionale palestinese responsabile per ogni razzo sparato da Gaza». Poi ha deciso di astenersi da «ogni negoziato con il nuovo governo palestinese», dando al premier Netanyahu ampia mandato «per approntare ulteriori sanzioni» nei confronti dell’Anp stesso.

Il 12 giugno vengono rapiti mentre facevano l’autostop vicino a Hebron. e poi uccisi tre ragazzi israeliani. Il governo israeliano ha accusato del rapimento – e quindi dell’uccisione – i militanti di Ḥamās, che tuttavia non hanno né rivendicato  né smentito l’azione. Qualche giorno dopo un ragazzo arabo, Mohamed Abu Khader, viene ritrovato bruciato e con segni di violenza, in un bosco di Gerusalemme.  Nella capitale la tensione è alle stelle. Nel quartiere di Suafat, migliaia di palestinesi hanno partecipato alle esequie del ragazzo e si sono scontrati con la polizia, mentre nuovi raid aerei venivano effettuati su Gaza. Non c’è pace in Palestina.

La situazione attuale

Le vicende dei Territori occupati sono sempre dipese da una doppia matrice. Da una parte abbiamo l’atteggiamento di Israele, che ha risentito e risente degli umori del suo popolo, ma soprattutto delle vicende politiche interne allo Stato. E’ una democrazia e il consenso si ottiene anche con una più o meno energica politica nei confronti dei palestinesi e delle loro organizzazioni politiche. Dall’altra parte abbiamo i palestinesi, che risentono di più vaste dinamiche che emergono nel mondo arabo. A fare le spese di questa situazione è soprattutto il processo di pace, che garantirebbe sicurezza ai primi e benessere ai secondi. Negli ultimi anni è emersa tra i palestinesi una tendenza al pragmatismo, che è più sensibile alle esigenze di fornire adeguate infrastrutture a coloro che abitano nei territori dell’Autorità nazionale palestinese, piuttosto che a lasciarsi appesantire da ideologie. Ma non bisogna assolutamente trascurare le spinte estremiste che provengono dalle file del radicalismo islamico. Accanto a tutto ciò bisogna registrare la presenza di un’atmosfera di tensione continua dovuta in larga misura alle decisioni del governo israeliano di incoraggiare la politica dei muri divisori e della colonizzazione. Nonostante gli sforzi, che comunque hanno fatto registrare progressi significativi per garantire un adeguato sviluppo alla popolazione araba, si intravvede con una certa difficoltà la strada che porta diritta alla nascita di uno Stato palestinese.

Appendice

TP_infrastrutture

Cisgiordania e Striscia di Gaza costituiscono i Territori Palestinesi in base agli Accordi Provvisori di Oslo del 1993. La Cisgiordania, parte maggiore dei Territori Palestinesi, nasce dagli accordi di armistizio del 1949. Il nome usato in inglese, West Bank indica la ‘sponda occidentale’ del fiume Giordano. La Costituzione e’ oggi la Basic Law, entrata in vigore il 7 luglio 2002 e prevede una struttura politico amministrativa basata su tre differenti organi di potere: esecutivo, legislativo e giudiziario. All’Autorita’ Nazionale Palestinese (Anp) è affidata l’amministrazione della Striscia di Gaza e di circa metà della Cisgiordania.

Governo: Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) è Mahmud Abbas (conosciuto anche con il nome di Abu Mazen), eletto il 15 gennaio 2005. Il Primo Ministro Salam Fayyad, eletto nel giugno 2007, si e’dimesso ufficialmente il 7 marzo 2009 per aprire la strada a un governo di unità nazionale, nel quadro del processo di riconciliazione con il movimento radicale Hamas.

Sistema legislativo: Democrazia parlamentare unicamerale

Organi legislativi: il Consiglio Legislativo Palestinese (Clp) – chiamato anche Parlamento palestinese – è composto da 88 deputati, eletti con voto popolare in rappresentanza dei 16 Governatorati. Il Clp ha il compito approvare tutti i membri del gabinetto di governo, proposti dal Primo ministro, nonché confermare il Primo Ministro stesso su nomina del Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Suddivisione Amministrativa: 16 Governatorati.

Antonio De Lisa

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Categorie:G03- Storia contemporanea dei paesi arabi - Contemporary History of the Arabic Countries

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