Storia dell’Intifāda
Prima Intifāda – 1987
A partire dal 1987, nei Territori Occupati si alzò un moto popolare (che prese il nome di Intifada, dall’arabo: انتفاضة “intervento”, “sussulto”), che cercava di combattere la presenza israeliana in Palestina. A differenza di quanto era successo in passato, inoltre, la sommossa nasceva proprio all’interno dello stato di Israele, nei territori occupati, in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, dove le condizioni di vita per i palestinesi erano particolarmente dure.
L’8 dicembre un camion delle Forze di Difesa Israeliane (FDI) colpì due furgoni che trasportavano operai di Gaza a Jabaliyya, un campo profughi che al tempo ospitava 60.000 persone. Uccise all’istante quattro di loro. Corse veloce la voce che lo scontro non era stato un incidente, ma una vendetta in nome di un israeliano accoltellato a morte alcuni giorni prima nel mercato di Gaza. Quella sera, scoppiò una rivolta a Jabaliyya, durante la quale centinaia di persone bruciarono pneumatici e attaccarono le Forze di Difesa Israeliane di turno nella zona. La rivolta si espanse ad altri campi profughi palestinesi e infine a Gerusalemme. Il 22 dicembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condannò Israele per avere violato la Convenzione di Ginevra a causa del numero di morti palestinesi nelle prime poche settimane di intifada.
Molta della violenza palestinese si espresse con mezzi poveri: decine di adolescenti palestinesi affrontavano le pattuglie di soldati israeliani bersagliandoli di sassi. Col tempo questa tattica lasciò il passo agli attacchi con bomba Molotov, più di 100 attacchi con bombe a mano e più di 500 attacchi con fucili o esplosivi. Le IDF, di contro, possedevano gli armamenti e le tecnologie di difesa più moderni.
Inoltre, un numero stimato di 1.000 presunti informatori fu ucciso da milizie civili arabe, benché gruppi arabi per i diritti umani palestinesi contestano che molti non fossero collaboratori ma vittime di vendette. Nel 1988 i palestinesi iniziarono un movimento nonviolento di sciopero fiscale, per trattenere le imposte – la legalità del comportamento rispetto alla legge internazionale è discussa. Israele sconfisse il boicottaggio infliggendo pesanti multe, per mezzo di arresti e pignorando beni degli aderenti allo sciopero fiscale. Il 19 aprile 1988 un leader dell’OLP, Abu Jihad, fu ucciso a Tunisi. Durante il sollevamento e la sommossa che seguirono, circa sedici palestinesi furono uccisi. Nel novembre dello stesso anno e nell’ottobre del successivo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò risoluzioni di condanna contro Israele.
Mentre l’intifada proseguiva, Israele introdusse metodi di controllo delle sommosse che avevano l’effetto di ridurre il numero di morti palestinesi. Un altro elemento che aveva contribuito all’iniziale alto numero di vittime era stato l’atteggiamento aggressivo del Ministro della Difesa Yitzhak Rabin nei confronti dei palestinesi. Durante una visita al campo profughi di Jalazon nel gennaio 1988, Rabin disse: “La prima priorità delle forze di sicurezza è di prevenire manifestazioni violente con forza, potere e botte … Faremo capire chi manda avanti i territori”. Il suo successore Moshe Arens mostrò in seguito un comportamento più diplomatico, che forse si tradusse nel minore numero di morti degli anni successivi.
Il 6 luglio 1989, ci fu il primo attacco suicida dentro i confini di Israele, il massacro del bus 405 a Tel Aviv. Nessun altro attacco di questa portata avvenne fino a dopo gli Accordi di Oslo. Benny Morris descrive in questi termini la situazione nel giugno del 1990: “Da allora l’intifada sembrò aver perso la strada. Un sintomo della frustrazione dell’OLP era il grande aumento nell’uccisione di sospetti collaboratori; nel 1991 gli israeliani uccisero meno palestinesi – circa 100 – rispetto a quanti ne uccisero i palestinesi stessi – circa 150.” Tentativi di un processo di pace nel conflitto israeliano-palestinese furono fatti alla Conferenza di Madrid dell’ottobre 1991.
Quando gli Accordi di Oslo furono firmati nel 1993, 1.162 palestinesi (fra cui 241 bambini, alcuni dei quali presero parte attiva nelle violenze) erano stati uccisi da israeliani e 160 israeliani (5 dei quali bambini) erano stati uccisi da palestinesi. Inoltre, approssimativamente 1.000 palestinesi erano stati uccisi da Palestinesi in quanto presunti collaboratori, benché solo il 40-45% di questi uccisi avesse mantenuto contatti con autorità israeliane. Nei primi tredici mesi di intifada, 332 palestinesi e 12 israeliani erano stati uccisi. Questo inizialmente alto dato di morti da parte palestinese era dovuto in gran parte all’inesperienza delle Forze di Difesa Israeliane nella pacificazione e nel controllo della folla. Spesso quando affrontavano dimostranti, i soldati delle FDI non avevano munizioni per il controllo delle rivolte, e sparavano a dimostranti disarmati con proiettili normali.
L’intifada non fu mai uno sforzo militare né nel senso convenzionale né nel senso di guerriglia. L’OLP (che aveva un controllo limitato sulla situazione) non si aspettò mai che la rivolta facesse conquiste dirette a discapito dello Stato di Israele, in quanto era un movimento di massa e non una loro impresa. In ogni caso, l’intifada riuscì a portare ad alcuni risultati che i Palestinesi consideravano positivi:
- Combattendo direttamente gli israeliani, piuttosto che confidando nell’autorità o nell’assistenza degli stati arabi confinanti, i palestinesi riuscirono a rinsaldare la propria identità nazionale indipendente, degna di auto-determinarsi. Questo periodo segnò la fine dell’abitudine israeliana di riferirsi ai palestinesi come ai “Siriani del Sud” e in gran parte pose fine alla discussione israeliana di una “soluzione giordana”
- Le brusche contromisure israeliane, in particolare durante i primi anni dell’intifada, portarono al ritorno dell’attenzione internazionale verso la situazione dei palestinesi, come prigionieri nella propria terra. Il fatto che 159 bambini palestinesi sotto i 16 anni, molti dei quali colpiti mentre tiravano sassi a soldati delle FDI, fossero stati uccisi, era particolarmente allarmante per gli osservatori internazionali. Il conflitto ebbe successo nel riportare la questione palestinese sull’agenda internazionale, in particolare all’ONU, ma anche in Europa e negli Stati Uniti, come anche negli stati arabi. L’Europa divenne un importante contribuente economico per la nascente Autorità Palestinese e l’assistenza e il supporto americani verso Israele divennero – almeno in apparenza – più soggetti a condizioni di prima.
- L’intifada causò anche una dura battuta d’arresto all’economia di Israele. La Banca di Israele calcolò che fosse costata al paese $650 milioni in esportazioni mancate, in gran parte grazie alla riuscita di boicottaggi palestinesi e alla creazione di microindustrie. L’impatto sul settore dei servizi, inclusa l’importante industria turistica israeliana, fu notevolmente pesante.
- La rivolta può essere collegata alla Conferenza di Madrid del 1991 e quindi al ritorno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina dal proprio esilio tunisino. Benché le trattative fallirono nell’adempiere il loro potenziale, prima dell’Intifada c’erano dubbi su una futura esistenza di uno Stato palestinese, dopo gli accordi di Oslo, un qualche tipo di Palestina indipendente, prima o poi, sembrava una cosa piuttosto certa.
Infine, Israele ebbe successo nel contenere la rivolta. Le forze palestinesi erano inferiori paragonate alle ben equipaggiate e addestrate Forze di Difesa Israeliane. Comunque, l’Intifada causò diversi problemi riguardo alla condotta delle IDF nei campi operativo e tattico, come anche il problema generale del prolungato controllo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da parte di Israele. Questi problemi furono rilevati e ampiamente criticati, sia nelle tribune internazionali (in particolare quando erano all’ordine del giorno i problemi umanitari), ma anche nell’opinione pubblica israeliana, che l’intifada spaccò in due.
Seconda Intifāda– Intifāda di al-Aqṣā – انتفاضة الأقصى 2000
La Seconda intifada (all’epoca denominata dal governo palestinese Intifāda di al-Aqṣā – انتفاضة الأقصى) è stata la rivolta palestinese esplosa a Gerusalemme il 28 settembre del 2000, in seguito estesa a tutta la Palestina. Secondo la versione palestinese l’episodio iniziale fu la reazione ad una visita, ritenuta dai palestinesi provocatoria, dell’allora capo del Likud Ariel Sharon (accompagnato da una delegazione del suo partito e da centinaia di poliziotti israeliani in tenuta antisommossa) al Monte del Tempio, luogo sacro per musulmani ed ebrei situato nella Città Vecchia. L’Intifada fu una successione di fatti violenti che aumentarono rapidamente di intensità e proseguirono per anni, assumendo i caratteri di una guerra d’attrito.
La Spianata delle Moschee (il luogo della Moschea della Roccia, ed anche il Monte del Tempio per gli ebrei) è un luogo da sempre reclamato sia dagli Ebrei, perché insistente sul luogo ove sorgeva il Tempio di Salomone, sia dai musulmani, essendo il punto da cui Maometto sarebbe asceso al Paradiso su di un cavallo alato con testa umana nel suo miʿrāj. Il gesto di Ariel Sharon intendeva rivendicare la sovranità israeliana o ebraica sul luogo; ciò avveniva in un momento di altissima tensione tra le popolazioni dovuto al recente fallimento dei negoziati di Camp David. L’episodio fu elemento scatenante di una guerra “calda” che è passata alla storia come “Seconda Intifada”.
La provocazione di Ariel Sharon fu il casus belli. Le ragioni storiche erano piuttosto il lento accumulo di tensioni tra il 1993 e il 2000, dovuto allo stallo del processo di pace, che faceva intravedere un fallimento degli accordi di Oslo. La tensione avrebbe raggiunto il culmine nel luglio del 2000 con il fallimento del vertice di Camp David.
I primi problemi erano sorti poco dopo gli accordi di Oslo quando, oltre ad un clima di forte opposizione politica al processo di pace fomentato da gruppi della destra israeliana, avvennero alcuni gravissimi fatti di violenza. Il più grave fu l’uccisione del Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin da parte di un estremista religioso ebreo. L’anno prima un colono ebreo, Baruch Goldstein, aprì il fuoco sulla folla in una moschea di Hebron, con intento suicida, compiendo una strage. Questo fatto fu il primo di una lunga successione di attentati. Alla morte del primo ministro Rabin la guida del governo passò nelle mani di Shimon Peres. Colui che era stato il principale architetto degli accordi di Oslo, però, nella gestione della crisi commise alcuni gravi errori: nel 1996 ordinò un bombardamento di rappresaglia in Libano contro le milizie Hezbollah (operazione Grapes of Wrath) che si risolse però in una strage di rifugiati palestinesi e ricevette una condanna dall’Onu. In un clima di scontento e perdita di fiducia dell’opinione pubblica israeliana, le elezioni furono vinte dalla destra e divenne primo ministro Benjamin Netanyahu, un irriducibile oppositore del processo di pace che era, soprattutto, considerato un interlocutore inaffidabile da parte dei leader arabi.
La costruzione di insediamenti in Cisgiordania riprese in modo massiccio, così come la confisca di terreni e la demolizione di case palestinesi. In particolare intorno a Gerusalemme un motivo di altissimo conflitto fu la volontà del governo di costruire il nuovo quartiere denominato Har Homa, decisione condannata dalla comunità internazionale. Inoltre, ci fu un arenarsi dei colloqui fra le parti. L’ostacolo era rappresentato dal netto ed esplicito “no” di Netanyahu a tre fondamentali richieste palestinesi: uno stato indipendente, il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi, lo smantellamento degli insediamenti costruiti e l’abbandono dei territori occupati, con un ritorno così ai confini del 1967. La politica di Netanyahu era invece orientata a prolungare i negoziati il più possibile approfittando della posizione di forza israeliana per portare avanti fatti compiuti. Parallelamente, in questa situazione estremamente penalizzante per l’Autorità Palestinese, vi fu tra i palestinesi una rapida crescita di consenso verso gruppi estremistici di impronta religiosa islamica (in particolare Ḥamās, ma anche il Movimento per il Jihad Islamico in Palestina).
Il fallimento dei negoziati di Camp David e degli accordi di Sharm al-Shaykh, nel 1999, in questo quadro produsse una ulteriore instabilità politica. La stessa Autorità Palestinese cominciò a temere il pericolo di una ripresa del conflitto armato, che si rifletteva nella decisione di Arafat di accumulare quantitativi di armi.
Allo scoppio della Seconda Intifada, un fatto caratterizzante fu la partecipazione iniziale alla sommossa della popolazione araba israeliana, fatto che non si era verificato durante la Prima Intifada (1987). L’uccisione di diciotto israeliani arabi, da parte della polizia di Israele, quando nei primi tre giorni gli scontri erano circoscritti prevalentemente a Gerusalemme, fu tra i fatti sanguinosi che precedettero la rivolta armata vera e propria nei Territori.
Con la seconda intifada vi fu una forte ripresa del fenomeno degli attentati suicidi palestinesi nelle principali città israeliane, in particolare contro luoghi di aggregazione civili come autobus e locali notturni. Questi atti terroristici erano stati già presenti negli anni precedenti ma non avevano ottenuto un significativo consenso politico da parte dell’opinione pubblica palestinese. Gli Israeliani, da parte loro, procedettero a varie operazioni contro la popolazione civile come la demolizione di edifici e quartieri, sia nella striscia di Gaza sia in Cisgiordania, una politica di “omicidi mirati” a sfondo politico e battaglie sanguinose come l’assedio di Jenin.
La Seconda Intifada si è svolta con esiti alterni fino almeno al 2005.
Categorie:G03- Storia contemporanea dei paesi arabi - Contemporary History of the Arabic Countries
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