Samuel Taylor Coleridge
Kubla Khan (1797)
Preface of 1816
Kubla Khan was published in 1816, with the following
Author’s Preface:
“In the summer of the year 1797, the Author, then in ill health, had retired to a lonely farm-house between Porlock and Linton, on the Exmoor confines of Somerset and Devonshire. In consequence of a slight indisposition, an anodyne had been prescribed, from the effects of which he fell asleep in his chair at the moment that he was reading the following sentence, or words of the same substance, in Purcha’s Pilgrimage: ‘Here the Khan Kubla commanded a palace to be built, and a stately garden thereunto. And thus ten miles of fertile ground were inclosed with a wall.’ The author continued for about three hours in a profound sleep, at least of the external senses, during which time he has the most vivid confidence that he could not have composed less than from two to three hundred lines; if that indeed can be called composition in which all the images rose up before him as things, with a parallel production of the correspondent expressions, without any sensation or consciousness of effort. On awaking he appeared to himself to have a distinct recollection of the whole, and taking his pen, ink, and paper, instantly and eagerly wrote down the lines that are here preserved. At this moment he was unfortunately called out by a person on business from Porlock, and detained by him above an hour, and on his return to his room, found, to his no small surprise and mortification, that though he still retained some vague and dim recollection of the general purport of the vision, yet, with the exception of some eight or ten scattered lines and images, all the rest had passed away like the images on the surface of a stream into which a stone has been cast, but, alas! without the after restoration of the latter! . . .
Yet from the still surviving recollections in his mind, the Author has frequently purposed to finish for himself what had been originally, as it were, given to him . . . but the tomorrow is yet to come.
Note: This fragment with a good deal more, not recoverable, composed, in a sort of Reverie brought on by two grains of Opium taken to check a dysentery, at a Farm House between Porlock & Linton, a quarter of a mile from Culbone Church, in the fall of the year 1797.”
Kubla Khan
In Xanadu did Kubla Khan
A stately pleasure-dome decree:
Where Alph, the sacred river, ran
Through caverns measureless to man
Down to a sunless sea.
So twice five miles of fertile ground
With walls and towers were girdled round:
And there were gardens bright with sinuous rills,
Where blossomed many an incense-bearing tree;
And here were forests ancient as the hills,
Enfolding sunny spots of greenery.
But oh! that deep romantic chasm which slanted
Down the green hill athwart a cedarn cover!
A savage place! as holy and enchanted
As e’er beneath a waning moon was haunted
By woman wailing for her demon-lover!
And from this chasm, with ceaseless turmoil seething,
As if this earth in fast thick pants were breathing,
A mighty fountain momently was forced:
Amid whose swift half-intermitted burst
Huge fragments vaulted like rebounding hail,
Or chaffy grain beneath the thresher’s flail:
And ‘mid these dancing rocks at once and ever
It flung up momently the sacred river.
Five miles meandering with a mazy motion
Through wood and dale the sacred river ran,
Then reached the caverns measureless to man,
And sank in tumult to a lifeless ocean:
And ‘mid this tumult Kubla heard from far
Ancestral voices prophesying war!
The shadow of the dome of pleasure
Floated midway on the waves;
Where was heard the mingled measure
From the fountain and the caves.
It was a miracle of rare device,
A sunny pleasure-dome with caves of ice!
A damsel with a dulcimer
In a vision once I saw:
It was an Abyssinian maid,
And on her dulcimer she played,
Singing of Mount Abora.
Could I revive within me
Her symphony and song,
To such a deep delight ‘twould win me
That with music loud and long
I would build that dome in air,
That sunny dome! those caves of ice!
And all who heard should see them there,
And all should cry, Beware! Beware!
His flashing eyes, his floating hair!
Weave a circle round him thrice,
And close your eyes with holy dread,
For he on honey-dew hath fed
And drunk the milk of Paradise.
—
Kubla Khan fece in Xanadù
Un duomo di delizia fabbricare:
Dove Alfeo, sacro fiume, verso un mare
Senza sole fluiva giù
Per caverne che l’uomo non può misurare.
Per cinque e cinque miglia di fertile suono
Lo circondò con torri e mura;
C’erano bei giardini, ruscelli sinuosi,
Alberi da incenso in fioritura;
C’erano boschi antichi come le colline
E assolate macchie di verzura.
Ah quel romantico abisso che sprofondava
Obliquo la verde collina in un folto di cedri!
Luogo selvaggio! Luogo santo e fatato
Quale fu mai visitato a una luna calante
Da una donna in sospiri per il suo dèmone amante!
E dall’abisso, fremente in continuo tumulto,
Quasi scotesse la terra un cupo affanno di palpiti,
Una possente fontana d’un tratto sprizzò:
E tra i suoi scrosci semintermittenti
Balzavano enormi frammenti come di grandine
O di grano che salta battuto dal battitore:
E in questa danza di pietre-cristalli
Il fiume sacro nasceva improvviso.
Per cinque miglia serpeggiando fluiva
Il fiume sacro fra boschi e piccole valli,
Giungeva a caverne che l’uomo non può misurare,
Poi sfociava in tumulto a un oceano senza vita:
E nel tumulto Kubla udì le voci remote
Degli antenati che predicavano guerra!
L’ombra del duomo di delizia
Fluttuava sull’acqua a mezzo via,
Dove si confondeva il ritmo sovrapposto
Della fontana e delle grotte.
Era un prodigio di rara maestria:
Antri di ghiaccio e cupola solatìa
Una fanciulla con salterio
Io vidi in una visione:
Era una giovane Abissina
E col suo salterio sonava,
Del Monte Abora cantava.
Potessi in me resuscitare
Quel suo canto e melodia,
Vinto di gioia ne sarei,
Di piena musica nell’aria
Quel duomo anch’io fabbricherei,
Quelle grotte di ghiaccio, la cupola di sole!
E ognuno che ascoltasse li vedrebbe,
Tutti gridando: attento! Attenti!
I suoi occhi di lampo, le sue chiome fluenti!
Fargli tre volte intorno un cerchio,
Chiudi gli occhi con santo timore,
Perché con rugiada di miele fu nutrito
E bevve latte di paradiso.
(S.T.Coleridge- Kubla Khan 1797)
—
Il sogno di Coleridge
Jorge Luis Borges
Il frammento lirico Kubla Khan (oltre cinquanta versi rimati e irregolari, di prosodia squisita) fu sognato dal poeta inglese Samuel Taylor Coleridge, in uno dei giorni dell’estate del 1797. Coleridge scrive che s’era ritirato in una tenuta nel territorio di Exmoor; una indisposizione l’obbligo’ a prendere un sonnifero; il sonno lo vinse poco dopo la lettura di un passo di Purchas, che narra l’edificazione di un palazzo da parte di Kublai Khan, l’imperatore la cui fama occidentale fu innalzata da Marco Polo. Nel sogno di Coleridge, il testo casualmente letto prese a germinare e a moltiplicarsi; l’uomo che dormiva intuì una serie d’immagini visuali e, semplicemente, di parole che le manifestavano; di lì a qualche ora si svegliò, con la certezza di aver composto, o ricevuto in dono, un poema di forse trecento versi. Li ricordava con singolare nitidezza e poté trascrivere il frammento che rimane nelle sue opere. Una visita inattesa lo interruppe e gli fu impossibile, in seguito, ricordare il resto. “Scopersi, con non piccola sorpresa e mortificazione,” racconta Coleridge, “che sebbene ritenessi in modo vago la forma generale della visione, tutto il rimanente, tranne otto o dieci righe isolate, era sparito come le immagini sulla superficie di un fiume nel quale si getta una pietra, ma, ahime’, senza la successiva ricostituzione di quelle.” Swinburne giudicò che quanto era stato salvato era il più alto esempio della musica dell’inglese e che l’uomo capace di analizzarlo avrebbe potuto (la metafora e’ di John Keats) sciogliere i fili di un arcobaleno. Le traduzioni o esposizioni di poemi la cui virtù fondamentale è la musica sono vane e possono riuscire dannose; basti ricordare, per ora, che a Coleridge fu concessa, -in sogno-, una pagina d’indiscusso splendore. Il caso, benché straordinario, non è unico. Nello studio psicologico “The world of dream”, Havelock Ellis lo ha paragonato a quello del violinista e compositore Giuseppe Tartini, il quale sognò che il Diavolo (suo schiavo) eseguiva sul violino una prodigiosa sonata; il sonatore, una volta sveglio, trasse dal suo imperfetto ricordo il Trillo del Diavolo. Un altro classico esempio di cerebrazione incosciente è quello di Robert Louis Stevenson, al quale un sogno (come egli stesso ha narrato nel suo Chapter on dreams) dette l’argomento di “Olalla” e un altro sogno, nel 1884, quello di Jekyll e Hyde. Tartini volle imitare, desto, la musica di un sogno; Stevenson ricevette dal sogno argomenti, cioè forme generali; piu’ affine all’ispirazione verbale di Coleridge è quella che Beda il Venerabile attribuisce a Caedmon (Historia ecclestiastica gentis Anglorum, IV, 24). Il caso avvenne alla fine del secolo VII, nell’Inghilterra missionaria e guerriera dei regni sassoni. Caedmon era un rozzo pastore, non più giovane; una notte, fuggì da una festa perché capì che gli avrebbero offerto l’arpa, e si sapeva incapace di cantare. Si sdraiò a dormire nella stalla, tra i cavalli, e nel sonno qualcuno lo chiamò per nome e gli ordinò di cantare. Caedmon rispose che non sapeva, ma l’altro gli disse: “canta il principio delle cose create.” Caedmon, allora, disse versi che non aveva mai uditi. Non li dimenticò, sveglio che fu, e poté ripeterli davanti ai monaci del vicino monastero di Hild. Non apprese a leggere, ma i monaci gli spiegavano passi della storia sacra ed egli “li ruminava come un animale e li convertiva in versi dolcissimi, e in tal modo cantò la creazione del mondo e dell’uomo e tutta la storia del Genesi e l’esodo dei figli di Israele e il loro ingresso nella terra promessa, e molte altre cose della Scrittura, e l’incarnazione, passione, resurrezione e ascensione del Signore, e la venuta dello Spirito Santo e l’insegnamento degli apostoli, e anche il terrore del Giudizio Finale, e l’orrore delle pene infernali, le dolcezze del cielo e le mercedi e i giudizi di Dio”. Fu il primo poeta sacro della nazione inglese;”nessuno lo uguagliò,” dice Beda, “perché non apprese dagli uomini ma da Dio.” Anni dopo, profeto’ l’ora in cui sarebbe morto e l’aspettò dormendo. Speriamo che abbia incontrato nuovamente il suo angelo. A prima vista, il sogno di Coleridge corre il rischio di sembrare meno prodigioso di quello del suo precursore. Kubla Khan è una composizione ammirevole e i nove versi dell’inno sognato da Caedmon non presentano quasi altra virtù che la loro origine onirica, ma Coleridge era già poeta, mentre a Caedmon fu rivelata una vocazione. C’è, tuttavia, un fatto successivo, che magnifica fino all’insondabile la meraviglia del sogno nel quale fu generato Kubla Khan. Se questo fatto è vero, la storia del sogno di Coleridge è anteriore di molti secoli a Coleridge e non ha toccato ancora la sua fine. Il poeta sognò nel 1797 (altri vogliono nel 1798) e pubblicò il suo racconto del sogno nel 1816, a guisa di glossa o giustificazione del poema incompiuto. Venti anni dopo, apparve a Parigi, frammentariamente, la prima versione occidentale di una di quelle storie universali di cui è tanto ricca la letteratura persiana, il Compendio di Storie di Rashid ud-Din, che data dal secolo XIV. In una pagina vi si legge: “Ad est di Shang-tu, Kublai Khan eresse un palazzo, secondo un piano che aveva visto in un sogno e che serbava nella memoria.” Chi scrisse questo era visir di Ghazan Mahmud, che discendeva da Kublai.
Un imperatore mongol, nel secolo XIII, sogna un palazzo e lo edifica conformemente alla visione; nel secolo XVIII, un poeta inglese che non poteva sapere che la fabbrica era nata da un sogno, sogna un poema sul palazzo. Confrontate con questa simmetria, che opera con anime di uomini dormienti e abbraccia continenti e secoli, niente o ben poco sono, mi pare, le levitazioni, resurrezioni e apparizioni dei libri pietosi. Quale spiegazione preferiremo? Coloro che in partenza rifiutano il soprannaturale (io mi sforzo, sempre, di appartenere a questo gruppo) giudicheranno che la storia dei due sogni è una coincidenza, un disegno tracciato dal caso come le forme di leoni o di cavalli che a volte configurano le nubi. Altri argomenteranno che il poeta aveva saputo in qualche modo che l’imperatore aveva sognato il palazzo e disse di aver sognato il poema per creare una splendida finzione che servisse a mascherare o giustificare i versi tronchi e rapsodici.(1) Tale congettura è verosimile, ma ci costringe a postulare, arbitrariamente, un testo non identificato dai sinologi nel quale Coleridge possa aver letto, prima del 1816, il sogno di Kublai.(2) Più affascinanti sono le ipotesi che trascendono il razionale. Per esempio, è dato supporre che l’anima dell’imperatore, distrutto il palazzo, sia penetrata nell’anima di Coleridge, affinche’ questi lo ricostruisse in parole, più durevoli dei marmi e dei metalli. Il primo sogno aggiunse alla realtà un palazzo; il secondo, che avvenne cinque secoli dopo, un poema (o inizio di poema) suggerito da un palazzo; la somiglianza dei sogni lascia intravedere un piano; il periodo enorme rivela un esecutore sovrumano. Indagare il proposito di codesto essere immortale o longevo sarebbe, forse, non meno arrischiato che inutile, ma è lecito sospettare che egli non l’abbia portato a termine. Nel 1691, il Gerbillon, della Compagnia di Gesù, accertò che del palazzo di Kublai Khan non restavano che rovine; del poema sappiamo che si salvarono soltanto cinquanta versi. Tali fatti permettono di immaginare che la serie dei sogni e delle costruzioni non abbia toccato il suo fine. Al primo sognatore fu concessa nella notte la visione del palazzo, che poi costruì; al secondo, che non seppe del sogno dell’altro, il poema sul palazzo. Se lo schema non viene meno, un lettore di Kubla Khan sognerà, una notte dalla quale ci separano i secoli, un marmo o una musica. Quell’uomo non saprà che altri due sognarono; forse la serie dei sogni non ha fine, forse la chiave sta nell’ultimo. Scritto quanto precede, intravedo o credo di intravedere un’altra spiegazione. Forse un archetipo non ancora rivelato agli uomini, un oggetto eterno (per usare la nomenclatura di Whitehead), sta entrando gradatamente nel mondo; la sua prima manifestazione fu il palazzo; la seconda il poema. Chi li avesse paragonati avrebbe visto ch’erano essenzialmente uguali.
Traduzione dallo spagnolo di Francesco Tentori Montaldo
(1) Al principio del secolo XIX o alla fine del XVIII, giudicato da lettori di gusto classico, Kubla Khan appariva ben piu’ bizzarro che non ora. Nel 1884, il primo biografo di Coleridge, Traill, poteva ancora scrivere: “Lo stravagante poema onirico Kubla Khan è poco più di una curiosità psicologica”.
(2) Si veda John Livingston Lowes, The road to Xanadu, 1927, pp. 358, 585.
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