Jung e l’Oriente- I Mandala

I Mandala di Carl Gustav Jung

L’archetipo del mandala

“Mandala”, termine derivato da una parola in Sanscrito che significa “cerchio”. Il cerchio delimita uno spazio che rappresenta l’esteriorizzazione del proprio psichismo (sintesi della manifestazione spaziale).  Carl Gustav Jung scrisse quattro saggi sui Mandala, i disegni rituali buddisti e induisti, dopo averli studiati per oltre venti anni. La presenza dei mandala è rintracciabile in ambito indo-buddhistico nel Tibet lamaistico, nell’induismo tantrico, nel buddhismo Vajrayana tibetano, negli Indiani Navaho, negli indiani del Sud-Ovest (America). Sono chiamati mandala non solo le figure circolari ma anche le forme concentriche tipo: quadrati, triangoli, eccetera, purché rimangano presenti le caratteristiche principali: ovvero un centro dal quale l’energia viene emanata e una proiezione nello spazio-tempo. Il Sé nell’ottica junghiana diviene il punto di riferimento essenziale quale esempio di ciò che di meglio si può trovare nella natura umana, è quindi l’archetipo centrale o l’archetipo dell’ordine, attraverso il quale può sorgere il confronto e la rivalutazione della propria persona.

Per comprendere l’interpretazione mandalica di Jung occorre riferirsi ai concetti di “inconscio collettivo” e  di archetipo. Jung accoglie la nozione freudiana di inconscio, ma la modifica notevolmente. Egli riconosce l’esistenza di un inconscio individuale, che contiene i materiali repressi o rimossi di origine infantile, emergenti nel sogno o nella nevrosi, ma precisa come esso costituisca solo un aspetto della struttura di fondo della psiche, la quale, oltre a contenere la coscienza e l’inconscio individuale, ospita anche l’inconscio collettivo. Gli archetipi, come l’inconscio collettivo, di cui costituiscono la sostanza, presentano tre caratteristiche peculiari: l’universalità, l’impersonalità e l’ereditarietà.

Se l’inconscio personale consiste soprattutto in «complessi a tonalità affettiva», a cui è affidata l’intimità personale della vita psichica, il contenuto dell’inconscio collettivo è formato, invece, da archetipi. La loro presenza è ricorrente, per esempio, nei sogni, dove si manifestano spesso contenuti non individuali e non ricavabili dall’esperienza personale del sognante. Per ciò che concerne quest’ultima, occorre ricordare che Jung considera la mente «un prodotto storico alla stessa stregua del corpo in cui si trova ad esistere»(L’uomo e i suoi simboli), e spiega che essa «si è sviluppata fino alla sua fase attuale di consapevolezza nello stesso modo in cui la ghianda si viene trasformando in quercia o i sauri sono diventati progressivamente mammiferi. Essa si è venuta sviluppando per un lunghissimo arco di tempo e continua tutt’ora a svilupparsi»(L’uomo e i suoi simboli).

Secondo Jung, durante i periodi di tensione psichica, figure mandaliche possono apparire spontaneamente nei sogni per portare o indicare la possibilità di un ordine interiore. Il simbolo del mandala, quindi, non è solo un’affascinante forma espressiva ma, agendo a ritroso, esercita anche un’azione sull’autore del disegno perché in questo simbolo si nasconde un effetto magico molto antico: l’immagine ha lo scopo di tracciare un magico solco intorno al centro, un recinto sacro della personalità più intima, un cerchio protettivo che evita la “dispersione” e tiene lontane le preoccupazioni provocate dall’esterno. Nelle filosofie orientali il “mandala” viene utilizzato come mezzo per la meditazione e tramite la sua costruzione o inserimento, l’uomo libera lo spirito, purifica l’anima, entra in comunione con tutte le forze positive presenti nel cosmo.

Oltre ad operare al fine di restaurare un ordinamento precedentemente in vigore, un mandala persegue anche la finalità creativa di dare espressione e forma a qualche cosa che tuttora non esiste, a qualcosa di nuovo e di unico. Come afferma Marie-Louise Von Franz (allieva di Jung), il secondo aspetto è ancora più importante del primo ma non lo contraddice poiché, nella maggior parte dei casi, ciò che vale a restaurare il vecchio ordine, comporta simultaneamente qualche nuovo elemento creativo.

Nel mandala personale il centro è l’uomo stesso che si deve purificare, trasformando le forze negative che porta dentro. Nel mandala vengono espulse tutte le energie negative attraverso la meditazione, la presa di coscienza e la conoscenza del proprio Sé che avviene durante il processo di costruzione del mandala stesso. Mentre costruisce il mandala, dall’esterno verso l’interno, l’uomo si concentra, si individualizza, esegue quella ricerca interiore indispensabile perché si verifichi la catarsi, la purificazione.

Cambiamento radicale che lo porterà alla trasformazione totale, tanto da considerare il vissuto quale trapasso da uno stato antico e inadatto ad uno nuovo e attuale. Una morte simbolica seguita da una nascita ad un livello superiore.

La pratica del mandala persegue tre scopi: centrare, guarire, crescere. Centrare significa cogliere l’essenziale, valutare lo scopo prioritario dei valori della vita. Per guarire, si intende l’espellere i turbamenti, le forze perturbatrici, la malattia. Per crescere si intende il proiettarsi verso una nuova dimensione, verso la meta della catarsi.

Il paziente deve disegnare e colorare, secondo la sua immaginazione, una figura circolare. L’unica informazione che deve essere data al paziente è che lo spazio interno del cerchio rappresenta il suo “Io” e che deve essere colorato partendo dal centro.

Da questo disegno si possono trarre interessanti conclusioni osservando la forma del cerchio: se tracciato in modo nitido o tremolante, e analizzando i colori usati per tinteggiare l’interno.

La stessa costruzione e colorazione del cerchio hanno anche un fine terapeutico, tanto da creare una liberazione nel soggetto. In questo caso però il paziente deve sapere a priori che il simbolo porterà ad una graduale organizzazione e presa di coscienza del suo “Io”.

Nel cerchio l’uomo ritrova quelle forze che ha smarrito o che non ricorda di possedere. La forma circolare è il simbolo dal quale tutto è nato. Tramite il cerchio l’uomo può ricercare se stesso, protetto nello stesso tempo da ogni attacco esterno. Al riparo, nella tranquillità, riesce a scorgere il punto centrale, la fonte dalla quale scaturiscono tutte le energie e comprende il significato del proprio valore umano e nello stesso tempo divino.

Nei tempi passati gli sciamani curavano utilizzando proprio il mandala. Lo sciamano tracciava un cerchio nella sabbia e poi, con l’aiuto di alcuni assistenti tracciava simboli e figure utilizzando argille di diverso colore. In certi casi l’operazione durava anche qualche giorno. Il momento più importante della cerimonia si aveva quando si faceva sedere il malato nel centro del cerchio. Lo sciamano prelevava un pugno di sabbia dal cerchio e lo strofinava sul capo del paziente, specialmente nella zona interessata dal male, accompagnando il rituale con canzoni e formule magiche, per attirare l’attenzione degli spiriti benigni. Al termine del rito il paziente distruggeva il mandala con il suo corpo; il male veniva allontanato e in molti casi la malattia era immediatamente debellata.

Con il susseguirsi delle varie azioni rituali, nello sciamano si verificava una forte concentrazione psichica che alimentava la suggestione già presente dall’inizio della costruzione del mandala. Questa concentrazione psichica raggiungeva anche l’ammalato.

La distruzione del mandala era il culmine dell’evento del transfert uomo-figura: il male passava al mandala e tramite il mandala veniva annullato.

Al centro del mandala risiede il Sé, quale entità totale e completa.

Il Sé posto al centro dello spazio mandalico per Jung assume il valore di archetipo, indicando una preforma concettuale ereditata nel tempo dagli uomini che ci hanno preceduti.

L’archetipo quale sintesi conciliante, quale “simbolo unificatore” che riunisce, aggrega ciò che per altre vie rimarrebbe “scollato”, e tale riunificazione non può che avvenire su un piano più sottile e superiore, ecco perché Jung assegna alle figurazioni archetipiche la funzione trascendente.

I contrari si uniscono intimamente per annullarsi su un piano che li trascende ambedue, ecco il compito principale delle figure mandaliche, secondo il pensiero junghiano.

Jung studiò per oltre quattordici anni le figure mandaliche e giunse alla conclusione che si trattava sicuramente di archetipi collettivi, proprio per la regolarità e ripetitività dell’uso nelle varie epoche e culture.

Queste figure sono portatrici di caratteristiche comuni: presentano un centro verso il quale tutto il sistema figurativo è orientato, sono delimitati da un cerchio o da un poligono; altre volte le figure geometriche sono sostituite da figure che le rappresentano quali la raggiera di petali di un fiore, una croce, una ruota.

Per Jung i mandala, quali figure ordinate, sia nell’antichità che nei tempi moderni, rappresentano l’estetica e l’ordine, il bisogno ancestrale del ritrovare la dimensione spirituale, il senso mistico dell’esistere: l’uomo quale essere posto tra il cielo e la terra che anela alla sintesi tra i due mondi. L’ordine quale realizzazione di sintesi tra ciò che lasciato alla propria forza si disporrebbe caoticamente e che invece guidato dal bisogno della crescita interiore si organizza pur mantenendo la propria diversità individuale dalle singole parti componenti. Accordo e armonia diventano sinonimi dell’ordine. La constatazione empirica che queste immagini compaiono spontaneamente in situazioni di disorientamento psichico, è interpretata come una sorta di «tentativo di guarigione da parte della natura stessa»(Gli archetipi e l’inconscio collettivo), sforzo che non deriva da una riflessione cosciente, ma da un impulso istintivo.

L’accordo permette di sinergizzare e integrare ciò che isolato varrebbe poco o nulla. Parti diverse, addirittura in molti casi apparentemente opposte, si coniugano in uno sposalizio che li supera, completandoli e trascendendoli. La comparsa spontanea di raffigurazioni mandaliche, laddove sia percepita la necessità di ricondurre la propria percezione della realtà fisica e psichica a un ordine armonico, definisce la natura del mandala, non solo simbolo del sé, ma anche archetipo di individuazione e, cioè, immagine di quel processo sintetico teso a integrare l’inconscio alla coscienza.

Secondo Jung l’archetipo del mandala è rappresentabile simbolicamente da un cerchio contenente una disposizione simmetrica figurale del numero quattro e dei suoi multipli. Ogni altra figura che si allontani dal cerchio o dal numero base che è il quattro, viene definita quale “mandala turbato”.

“Il simbolo mandala è un fatto psichico autonomo, che si distingue per una fenomenologia che si ripete sempre ed è identica in ogni luogo. E’ una specie di nucleo atomico, di cui però non conosciamo ancora l’intima struttura e l’ultimo significato”. (Jung, 1950).

Jung chiama il processo di presa di coscienza “individuazione” che diventa il mezzo con il quale ognuno può impartire un nuovo impulso per orientarsi verso un cammino che lo porterà ad una visuale più ampia, nella quale scorgerà ciò che da se stesso deve essere allontanato.

“Ogni più alto stato di coscienza è condizione di una visione del mondo. Ogni coscienza di basi e di intenti è, in germe, una visione del mondo. Ogni progresso nell’esperienza e nella conoscenza significa un passo ulteriore nello sviluppo della visione del mondo. Modificando l’immagine che egli si crea del mondo, l’uomo pensante modifica anche se stesso. L’uomo il cui Sole gira attorno alla Terra è diverso da quello cui la Terra è satellite del Sole”. (Jung, 1950, ed. Einaudi, Torino, 1959).

La lettura di un mandala, che coincide, dunque, con il processo di individuazione junghiano, implica la partecipazione alla sistole e alla diastole dell’universo, preludio alla palingenesi dell’individuo.

Bibliografia

K. Vatsyayan, The Square and the Circe of the Indian Arts, Roli Books International, New Delhi 1983.

S. Kramrisch, Il tempio indù, Luni, Milano 1999.

G. Tucci, Teoria e pratica del mandala, Ubaldini, Roma 1969.

C.G.Jung, L’uomo e i suoi simboli (Man and HIs Symbols, 1964, con Joseph L. Henderson, Marie-Louise von Franz, Aniela Jaffé, e Jolande Jacobi), a cura di John Freeman, trad. di Roberto Tettucci, Roma: Casini, 1967; Milano: Longanesi, 1967; Milano: Raffaello Cortina, 1983; Milano: Mondadori, 1984; Milano: Tea, 1991.

C.G.Jung, Il mistero del fiore d’oro o Il segreto del fiore d’oro (Das Geheimnis der goldenen Blüte, a cura di, con Richard Wilhelm), trad. di Mario Gabrieli, Bari: Laterza, 1936; trad. di Augusto Vitale e Maria Anna Massimello, Torino: Boringhieri, 1981; con saggio introduttivo di Augusto Romano, ivi, 2001.

C. G. Jung, La simbolica dello spirito, Einaudi, Torino 1975.

C. G. Jung, Aion: ricerche sul simbolismo del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1982,.

C.G.Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1934-54), trad. di Elena Schanzer e Antonio Vitolo, Bollati Boringhieri, Torino 1977.

C. G. Jung, Psicologia e Alchimia (Psychologie und Alchemie, 1935 Eranos Jarbuch), trad. di Roberto Bazlen, Astrolabio, Roma 1949; trad. riveduta da Lisa Baruffi, Bollati Boringhieri, Torino 1972.

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